FIGC, Gravina non lascerà il suo incarico

Giancarlo Abete bastarono pochi minuti. A Carlo Tavecchio servì una settimana di tempo. Ma alla fine le dimissioni arrivarono comunque. Gabriele Gravina lo ha detto chiaro e tondo, prima e dopo la clamorosa sconfitta della Nazionale: non ha alcuna intenzione di seguire l’esempio dei suoi predecessori. Il presidente della FIGC ha spiegato che “il progetto andrà avanti” e si è anche augurato che possa fare lo stesso Roberto Mancini, con il quale per la cronaca in passato non sono mancati screzi poi appianati. Difficile che si proceda davvero come nulla fosse: le dimissioni del commissario tecnico sono nell’aria e potrebbero arrivare al ritorno dalla farsesca trasferta turca di Konya. Quelle di Gravina, si diceva, no: lo ha ribadito in una conferenza stampa nella quale, dopo aver perso in casa contro la 67esima nazionale al mondo, si è trovato il tempo di parlare soprattutto del (calante) amore per la Nazionale e delle incomprensioni con i club. Ma andiamo con ordine. Le elezioni e i programmi. Presidente della Federcalcio per la prima volta a ottobre del 2018 superando Tommasi e Sibilia ritiratisi, Gravina è stato riconfermato in via Allegri nel febbraio 2021 battendo ancora lo sfidante Sibilia, questa volta in una contesa ben più aspra. Maggioranze bulgare in entrambi i casi, anche se in calo: 97,2 per cento prima, 73,45 per cento poi. Tra gli obiettivi del suo primo programma: il Club Italia da guidare come una società, la riduzione delle squadre professionistiche, la revisione dei pesi elettorali in federazione, l’inserimento dei requisiti di onorabilità per entrare nel mondo del calcio. Alcuni di essi, riproposti nei successivi buoni propositi del 2021: sempre la riforma dei campionati (“qualitativa e non per forza quantitativa”), nuova mutualità, interventi sul vincolo sportivo dopo la gamba tesa dell’allora ministro Spadafora. Tra un’elezione e l’altra, bene ricordarlo, l’emergenza da Covid-19 che ha reso tutto più complicato.

Cosa ha fatto da presidente. Il Club Italia oggi è realtà, guidato dallo stesso Gravina, con l’obiettivo di coordinare il lavoro di tutte le squadre nazionali. Nei tre anni e mezzo di presidenza, alcuni degli obiettivi dichiarati nei due programmi sono divenuti concreti. Del 2019 è il Codice di Giustizia Sportiva, a lungo richiesto a gran voce dall’allora sottosegretario Giorgetti. Più recenti i grandi passi verso il professionismo femminile, in questo caso fortemente voluto dal CONI ma ben assecondato dalla Federcalcio. E ancora, i requisiti per “entrare” nel calcio sono diventati più stretti: il controllo sulle acquisizioni di partecipazioni superiori al 10 per cento ha alzato l’asticella da questo punto di vista. Poi, appunto, la complicata gestione emergenziale: la pandemia ha cambiato orizzonti e prospettive, in un periodo nel quale Gravina si è oggettivamente trovato a cavalcare una tempesta ed è stato il primo a crederci, l’ultimo ad arrendersi. Ne siamo usciti con le ossa rotte, ma più interi del previsto. E cosa non ha fatto: una riforma nelle sabbie mobili. C’è però anche quel che manca all’appello. Una cosa su tutte: la riforma del calcio italiano. Non un topolino, ma la montagna non è nemmeno vicina a partorirlo. Non sono cambiati i pesi elettorali – oggi Lega Pro e Serie D contano molto di più della Serie A – non vi è stato alcun intervento sul format dei campionati. E non si sono neanche viste le novità più care al numero uno federale: che a Gravina piacciano i playoff, per esempio, lo sanno anche i muri. Restano nel limbo, così come qualsiasi intervento strutturale sulle cento squadre professionistiche italiane. Tante erano, tante restano e gli ultimi mesi – dalla rielezione ne sono passati quattordici – non hanno segnato alcun passo in avanti da questo punto di vista. Anzi: il profluvio di indiscrezioni ha avuto il suo corso, senza che mai si capisse quali fossero le reali intenzioni. Forse perché da questo pantano il calcio non si è mai davvero smosso. Stesso discorso, per la cronaca, per un argomento molto tecnico ma ancora più caro ai club e alle leghe: la criticatissima legge Melandri, nonostante i buoni rapporti col governo, è sempre lì. Politicamente, Gravina è più saldo che mai. Di riforma si è tornato a parlare nelle ultime ore. Come ogni volta che l’Italia fallisce il suo obiettivo. Troppe squadre, troppi stranieri: sono solo alcuni degli argomenti più caldi nelle ore immediatamente successive al disastro, perché di questo si tratta. Il paradosso? Gravina non è riuscito a condurla in porto, anche per la fortissima litigiosità delle componenti federali, ma è allo stesso tempo abbastanza forte politicamente in questo momento da poter escludere dal tavolo l’ipotesi delle dimissioni. Memore delle intemperie elettorali, ha attorno a sé un fortino: senza ridurre a ruoli improbabili per la rispettiva caratura due figure di assoluto rilievo come Francesco Ghirelli, presidente di Lega Pro, e lo stesso Abete, di recente eletto a numero uno di LND, è un dato di fatto che in questo momento chi guida Serie C e Serie D sia in grande affinità con Gravina. Considerato che queste due leghe in sede elettorale rappresentano complessivamente il 51 per cento dei voti, il dado è presto tratto. Il nodo Serie A. E non solo quello. Quindi, tutto va avanti perché niente cambi? A livello politico e formale, proprio così. Senza le dimissioni, il progetto proseguirà come ha detto lo stesso Gravina. I temi sono però due: anzitutto, il sentimento “popolare”. Quelle percentuali di cui sopra sono poi da tradurre in delegati, in club. Ogni Lega ha un peso elettorale ripartito tra i soggetti che la compongono, e non è detto che resti un monolite inscalfibile di consenso (o dissenso). E poi, gli attriti con la Lega Serie A: da maneggiare con estrema cura. I club del massimo campionato sono sembrati più volte, di recente, una bomba a orologeria. Verso l’interno, come certifica l’elezione di Lorenzo Casini a presidente, avvenuta col minimo indispensabile; e non vanno dimenticate le frizioni sul tema Superlega con le big, Juventus su tutte. Ma anche verso l’esterno: dapprima il paventato commissariamento, da ultimo questo botta e risposta sul rinvio di una giornata che quasi nessuno in Europa ha toccato e che difficilmente ha avuto un peso reale su una partita contro una formazione modesta come quella di Skopje. Politicamente, le società più importanti d’Italia conteranno magari molto poco: non è proprio così, ma meglio non scadere nel tecnico. A livello d’immagine ed economico, mettersi contro via Rosellini – dove alcuni inquilini, Lotito e De Laurentiis su tutti, sono già in fermento – rischia però di essere una scommessa impossibile da vincere.